Convegno: ” Il futuro del ciclo integrato dei rifiuti nelle liberalizzazioni” del 27 febbraio 2007

18 Luglio 2011

Relazione introduttiva di Franca Peroni segretaria naz.le FP CGIL relativa al convegno " Il futuro del ciclo integrato dei rifiuti nelle liberalizzazioni" del 27 febbraio 2007

L’iniziativa di oggi si pone nel solco della nostra riflessione di categoria sullo “stato dell’arte” del settore, anche alla luce delle modificazioni intervenute nell’ultimo periodo ed in prospettiva della discussione del ddl “Lanzillotta”.
Oggi quindi vorremmo parlare della gestione del ciclo integrato dei rifiuti, toccando il tema del modello di gestione.Sicuramente il susseguirsi di normative regolamentari – a volte anche discordanti – non ha contribuito ad uno sviluppo regolato del settore. Ma oggi, dobbiamo dire di essere ulteriormente preoccupati dalle prospettive che sembrano avanzare con i progetti di liberalizzazione che stanno prendendo campo. Prioritariamente vorrei sottolineare come il ddl Lanzillotta abbia una impostazione sbagliata perché accomuna tipologie di servizi profondamente diversi, avendo come  unico obiettivo l’apertura al mercato, a prescindere.Il ddl ha anche una impronta neo liberista, racchiusa nel concetto che solo liberalizzando/privatizzando si possono avere servizi migliori per l’utenza a costi più bassi. Occorrerebbe chiedere ai cittadini di Aprilia, che sono stati soggetti passivi di una liberalizzazione – quella dell’acqua – cosa ne pensino al riguardo!L’analisi di  precedenti percorsi di liberalizzazione non ha dato questi risultati così concordanti: guardiamo alla telefonia o, se andiamo all’estero, le privatizzazioni inglesi delle ferrovie, tanto per citare alcuni esempi.
Inoltre, l’intervento legislativo attua un tentativo di esproprio delle competenze e titolarità territoriali delle autonomie locali, nel contesto della riforma del titolo V della Costituzione.. Il poter decidere sul proprio territorio come organizzare, sul piano quali-quantitativo l’erogazione dei servizi pubblici locali, è elemento fondamentale per rispondere ai bisogni primari della collettività locale.Basti pensare alle scelte che attengono alle politiche ambientali legate alle vocazioni storiche, sociali e produttive dei territori: come è possibile pensare esista un solo modello declinativo sull’intero territorio nazionale?Questo vale a maggior ragione per la gestione del ciclo integrato dei rifiuti, che noi riteniamo debba rientrare a pieno titolo in quell’area nella quale noi identifichiamo i cosiddetti “beni comuni”.
La tutela dell’ambiente è bene comune che va preservato e la realizzazione della stessa necessita di strumenti di forte controllo da parte delle comunità locali, strumenti che possono essere efficaci solo nella misura in cui sono agiti direttamente.
Abbiamo tentato, con il pragmatismo che ci contraddistingue, di andare aldilà delle affermazioni di principio, che rischiano di divenire esclusivamente ideologiche, tentando una lettura dello “stato dell’arte” ed un approfondimento sui modelli di gestione in essere.  E’ quindi questo il tema di oggi.
Così come crediamo non si tratti di aderire o meno acriticamente alla liberalizzazione e alla successiva cessione delle attività/imprese pubbliche, piuttosto di analizzare e trovare il punto di equilibrio tra il mercato e la necessità dell’intervento dello stato nell’economia reale per lo sviluppo.
Noi crediamo infatti che l’impresa pubblica non sia la rappresentazione del potere o l’occupazione del mercato da parte dello stato, ma possa essere anche uno strumento prezioso che la pubblica amministrazione utilizza per risolvere molti degli ancora irrisolti problemi economici. Così come è un dato difficilmente contestabile quello che tutti i più importanti Paesi a capitalismo avanzato hanno tratto un enorme beneficio dalla presenza dello stato nell’economia reale.
Ma, ritornando al tema delle privatizzazioni/liberalizzazioni, occorre prioritariamente rilevare che sul territorio nazionale, nel settore ambientale, così come in altri settori, non esiste alcun straccio di politica industriale che garantisca la presenza di soggetti in grado di stare in campo producendo buoni servizi, buona occupazione ed attività economicamente significativa.
La legislazione del settore è carente. I tentativi di regolamentazione del settore, susseguitisi con i diversi Esecutivi, non hanno prodotto significativi risultati, registrando una battuta d’arresto con la delega ambientale del governo Berlusconi, che ha tentato di destrutturare profondamente il settore, a partire dalla rivisitazione del concetto di rifiuto e che ha introdotto elementi di frantumazione nella gestione integrata del ciclo, espropriato la titolarità dei soggetti istituzionali (autonomie locali) e tentato di consegnare ad un monopolio privato la gestione terminale del ciclo dei rifiuti.
In questo quadro, si prevede- appunto – nel settore dei rifiuti un percorso di completa apertura al mercato. Questo percorso non prefigura, per le motivazioni che poi tenterò di spiegare, allo stato le condizioni di contesto nonché quelle di regolazione che rendono possibile il superamento delle attuali difficoltà del settore e delle questioni (dai diritti alla trasparenza, dalla tutela delle fasce deboli alla sicurezza ed alla legalità) che rappresentano per il Sindacato punti assolutamente prioritari.
E’ sintomatico ad esempio come la Carta dei Servizi (che pure non è uno strumento risolutivo) rimanga documento obbligatorio nei servizi idrici, ma ancora strumento volontario per il ciclo dei rifiuti. Come Categoria, assieme al Dipartimento Ambiente della Confederazione, abbiamo prodotto una prima riflessione, che riprenderò nella mia introduzione. Altre questioni verranno sicuramente riprese dal compagno Ludovico Ferroni del Dipartimento Ambiente che interverrà nel corso dei nostri lavori.Prima di affrontare il quadro della gestione del ciclo integrato dei rifiuti su scala nazionale, vorrei fare presente come  però ci sia  tutto un pezzo del settore/mercato che spesso non compare e che ha effetti importanti sul versante economico/ambientale.Sto parlando dei consorzi obbligatori per il riciclo di materiali, delle discariche, degli stessi impianti di termovalorizzazione che sovente sono fuori dal ciclo integrato dei rifiuti.
Sul primo, i consorzi, parliamo di un “mercato obbligatorio” (imballaggi, Conai e Consorzi obbligatori e/o volontari di filiere) determinato normativamente dallo Stato fin nelle articolazioni interne di questi soggetti.
In questo segmento è evidente che all’obiettivo pubblico di raggiungimento dei livelli di Raccolta Differenziata in tutto il territorio nazionale si sostituisce un indirizzo privato che tende ovviamente al raggiungimento dello stesso in una condizione di pareggio (o di non spesa) di bilancio.
Ciò porta ad accentrare risorse finanziarie e sforzi organizzativi là dove è più facile cogliere, a parità di investimento, risultati percentuali nettamente superiori alla media nazionale. Così, visto che gli obiettivi di riciclo per il Conai sono nazionali, si continua a privilegiare i risultati positivi del Nord ed a non risolvere i problemi del Sud .Un ruolo decisivo in questa direzione è giocato dalle inadeguatezze territoriali del ruolo pubblico (soprattutto nel Mezzogiorno) con la conseguenza, per certi versi paradossale, di un trasferimento netto di risorse finanziarie dal Sud al Nord del Paese e dal riuso e riciclo alla termovalorizzazione.
Il secondo segmento, quello delle discariche, è un mercato nel quale vi è un monopolista della domanda che è tra l’altro titolare di un potere esclusivo di concessione nel quale lo stesso rinuncia volontariamente ai benefici della concorrenza e favorisce invece vere e proprie rendite di posizione.
In via teorica si dovrebbe infatti pensare il detentore del monopolio potrebbe aprire la possibilità ai privati, detentori di suolo effettivamente utilizzabile, di avanzare liberamente le proprie offerte di servizio, valutandole dal punto di vista economico ed al netto delle garanzie ambientali, sulla base della loro vicinanza massima ai livelli dei costi tecnici di gestione. Con un sovrappiù (profitto) chiaramente determinato e conosciuto, mentre sempre sconosciuto (e poi a carico sociale) risulta essere la successiva bonifica dei siti contaminati. Il paradosso economico delle discariche nasce dal fatto che il prezzo è stabilito in una contrattazione di tipo privatistico che non ha nessuna spiegazione e nessun riferimento nella tariffa imposta al cittadino-consumatore.
Il terzo segmento  appunto, è quello degli impianti. Si è sostenuto che occorre separare la proprietà, ma di fatto anche la gestione delle reti da quella del servizio. Ma in questo caso, reti e servizio, formano appunto quel ciclo integrato dei rifiuti che per noi è condizione sine qua non per garantire una gestione sostenibile del sistema.
In verità vi è anche il quarto segmento e forse più rilevante, quello  industriale del recupero e trattamento dei rifiuti speciali, riferito direttamente alle produzioni, che spesso viene citato come criticità ma non affrontato ancora nel modo dovuto perché in parte ancora “poco conosciuto”.
Ma arriviamo infine al pezzo che ci riguarda più da vicino. Quello della gestione della raccolta e smaltimento (servizio pubblico locale). Ed è solo su questo mercato che in genere si appuntano le ansie delle virtù progressive dell'”apertura al mercato” (e non solo dei soggetti forti ma anche di una parte consistente della politica). E’ qui che si inserisce il “mercato-souk dell’appalto” o ancor peggio del sub-appalto basato su un connubio improprio tra politica ed affari ed infelicemente ridotto alla “missione” di esternalizzare i costi dei primi tre (discariche, impianti e consorzi)  il più delle volte a detrimento dei diritti del lavoro, di chi sulle dimensioni delle micro-gare scorge il proprio spazio di micro-rendita di posizione e di micro-potere di mercato.
Oggi valuteremo alcune “buone pratiche” imprenditoriali, ma segnaleremo anche i punti di forte sofferenza.
Infatti, riassumendo lo stato dell’arte, dobbiamo prioritariamente registrare come l’assenza di politiche di investimenti nel sud del paese, trovi drammaticamente riscontro anche nel settore.
Possiamo, per dirla con Silone, affermare che “l’ambiente e la sua tutela si è fermato ad Eboli”.
Tanta parte del nostro bel Sud è stata territorio di scorribande di improbabili imprenditori che hanno saccheggiato il territorio e, quando si sono comportati bene, hanno sfruttato i lavoratori, con pericolose contiguità con il mondo della malavita organizzata. E’ noto infatti che la gestione illegale dei rifiuti è in testa di lista su altri mercati di profitto illegale quale droga, prostituzione, racket, ecc.
D’altra parte, il reiterarsi dello stato di “emergenza” con le conseguenti gestioni commissariali ha di fatto svuotato di responsabilità le autonomie locali, oltre naturalmente le casse dello stato.
Così emergono i due anelli deboli della catena: da una parte i lavoratori sfruttati da imprese “mordi e fuggi”, dall’altra cittadini che vivono in condizioni di emergenza sanitaria e spesso sono strumentalizzati (vedi caso Acerra). Per questo diventa fondamentale chiudere le gestioni commissariali, uscendo dall’emergenza in tutte le Regioni coinvolte, e restituendo pieni poteri e responsabilità ai soggetti preposti.
Ma poiché sarebbe sbagliato generalizzare i comportamenti, abbiamo invitato la dott.ssa Cerroni ad illustrarci anche quella parte di mondo dell’imprenditoria privata del settore che quotidianamente mette in campo le buone pratiche.
Nel Nord, assistiamo invece, pur con alcuni preoccupanti casi di caduta, che sfiorano anche lì contiguità con sistemi economici illegali e malavitosi, a momenti di sviluppo che si possono così articolare:
crescita dimensionale delle imprese – pubbliche perché nell’area privata non ci sono significative esperienze – sviluppatesi in modelli di mono o multiutility in ambito sovraprovinciale, con dimensionamenti che a volte superano il territorio regionale (oggi avremo il contributo di Amsa e di Hera). Questo tipo di aziende riesce a rispondere alla richiesta di gestione del ciclo integrato dei rifiuti, occupandosi dalla raccolta allo smaltimento finale dello stesso e gestendo i relativi impianti. Questo ha consentito recuperi di produttività e di economicità nella gestione del ciclo, che spesso sono stati legati a qualità nei servizi e nell’occupazione e che ha dato alle stesse margini economici per tentare il “grande salto”: quello della quotazione in borsa delle aziende, andando così a modificare il profilo ed assetto societario delle stesse (nonché sovente ad un peggioramento delle condizioni materiali degli operatori).
Dall’altra, assistiamo alla presenza consolidata di piccole e medie aziende, ex Municipalizzate che, pur non gestendo l’intero ciclo dei rifiuti, sul segmento di competenza riescono a coniugare equilibrio nei costi/qualità ambientale/qualità occupazionale.
Queste aziende, in particolare le prime, sono riuscite a registrare nella prima fase di dimensionamento anche un interessante sviluppo sul versante della ricerca e dell’innovazione di processo, integrando nella propria mission investimenti utili alla sostenibilità ambientale. Dovremmo quindi dire che questo è il modello che funziona.
La crescita dei profitti di queste aziende sta però ricollocando le stesse verso processi di finanziarizzazione che rischiano, ad oggi, di snaturare la mission originaria su cui sono state costituite.
La quotazione delle aziende pubbliche in Borsa introduce scelte gestionali che possono confliggere, a causa di una “smania da dividendo” con gli obiettivi sociali che i Comuni azionisti hanno loro assegnato.
Accade così che nei bilanci delle multiutilities potremmo leggere come un successo l’aumento della quantità di acqua venduta causa siccità e/o l’incremento di gas venduto a seguito di intensi inverni. Quasi fosse positivo il fenomeno di riscaldamento del pianeta!
Appare evidente come la collocazione su modelli gestionali ed assetti societari fortemente liberalizzati e finanziarizzati possa portare ad un progressivo allontanamento delle stesse dalle finalità ed obiettivi che le comunità locali hanno loro assegnato. Sul tema della governance avremo oggi un interessante contributo del prof. Paolo Leon.
E forse, allora, sui modelli di gestione, occorre ripensare ad un loro dimensionamento territoriale: ha senso che una multiutility – Hera anziché Ama – vada a raccogliere rifiuti in Messico o in questo modello di “globalizzazione” dell’intervento dell’azienda si vada perdendo anche l’antica mission che i proprietari “Comuni” avevano ad essa affidato?
Non è forse invece più opportuno rafforzare pienamente questa mission, pensando ad una azienda pubblica territoriale (regionale forse, suggeriscono i compagni dell’Emilia Romagna pensando alla loro esperienza) che operi per la riduzione dell’impatto ambientale, sul fronte della riduzione nella produzione dei rifiuti, del consumo più consapevole di energia, investendo quindi capitali, lavoro, intelligenze, ricerca ed innovazione su questo versante?
E non potrebbe questa azienda essere il “braccio operativo” delle politiche ambientali ed energetiche che le comunità locali, a partire dai piani regionali, definiscono via via?
Così come, in questa impostazione, dovrà essere posta attenzione all’equilibrio fra le diverse filiere organizzate.
Se il trattamento dei rifiuti con gli impianti diventa elemento interessante di produzione di energia – e la multiutility investe prevalentemente su questa ultima filiera – appare evidente che lo stesso ciclo di trattamento integrato dei rifiuti verrà “piegato” agli interessi/compatibilità di quello dell’energia, divenendo esso stesso esclusivamente “carburante” per lo sviluppo di quest’ultimo.
Così come infine, una particolare attenzione sul versante di queste aziende va posta sul tema “lavoro”.
Vedete, certamente la partita degli investimenti sugli impianti è cosa rilevante, ma in molte filiere di queste multiutilities il costo significativo è quello del lavoro.
Ora, se non si mette in campo una buona politica occupazionale (lavoro stabile – applicazione dei ccnl di settore – rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro) è evidente come il segmento produttivo, attraverso il meccanismo degli appalti e subappalti, diverrà territorio di conquista di imprenditori di “facili costumi”, con il risultato che, attraverso la frammentazione del ciclo, si introdurranno elementi di precarietà sul versante occupazionale ed anche ambientale, perché vengono disperse importanti conoscenze sulla gestione del ciclo stesso. Non a caso, all’apertura del rinnovo quadriennale del ccnl dell’igiene ambientale pubblica e privata, stiamo chiedendo ai datori di lavoro – pubblici e privati – si sedersi ad un medesimo tavolo.
Come vedete, prima degli intendimenti del ddl Lanzillotta, servono interventi significativi che regolino il settore. Il tavolo di rivisitazione del Testo Unico Ambientale è la sede più opportuna per garantire ciò.
Gli elementi per noi fondamentali sono quindi la clausola sociale e la dimensione delle imprese.
La prima di queste condizioni (preventiva ed anzi pregiudiziale) è l’introduzione nella eventuale legge delega della clausola sociale e l’identificazione nei successivi decreti legislativi dei contratti di riferimento.  E di questo ad oggi mi risulta si siano perse le tracce nel testo ultimo emendato.
Questo non solo per ciò che riguarda, come naturale, i diritti del lavoro, ma anche per impedire una concorrenza selvaggia basata sulla compressione dei diritti piuttosto che sulla qualità delle imprese, cosa questa che valorizzerebbe anche le imprese sane..
Va inoltre evitata in esplicito la differenziazione tra segmenti ricchi che producono profitti (discariche e termovalorizzazione) da quelli più poveri di valore aggiunto (Raccolta Differenziata e spazzamento in primo luogo) che scaricherebbero sul lavoro e sui diritti una inaccettabile pressione.
La seconda condizione riguarda invece la necessità di indicare, tra i provvedimenti previsti all’art. 2, quelli relativi alla crescita dimensionale delle imprese in particolare per ciò che attiene alle realtà del Mezzogiorno. La responsabilità di questa frantumazione coinvolge colpevolmente sia gli enti locali che il sistema delle imprese e produce in definitiva una cultura scarsamente competitiva, fortemente legata (ed in qualche caso collusa) con la politica e legata alla logica dell’appalto e del costo “a piè di lista”.
Gli sprechi derivanti da tale situazione sono stati calcolati in alcune realtà e Regioni del Mezzogiorno in circa il 20%  del volume d’affari complessivo.
La normativa, che noi continuiamo a preferire di settore, deve pertanto assumere i principi correlati della obbligatorietà per i Comuni della dimensione minima degli ATO (almeno provinciale), della separazione netta tra soggetti delle domanda (ATO) e soggetti gestori (pubblici o privati che siano), dell’introduzione di criteri rigorosi ed adeguati di qualificazione delle imprese per l’accesso alle gare, ove questa sia scelta come modalità gestionale. Abbiamo messo il condizionale, perché non ci stancheremo mai di ripetere che debbono essere garantite e riconfermate le tre modalità di assegnazione del servizio, previsto dal Testo Unico degli Enti locali 2001, che possono così consentire scelte coerenti con la storia culturale, sociale ed ambientale dei singoli territori. Questo,  sotto la vigilanza di autorità indipendenti (nazionale e regionali) per garantire una efficace tutela dei cittadini.
Ciò anche al fine di non rendere irreversibile il dualismo tra il Nord, nel quale si ipotizza una concentrazione atta a favorire la nascita di una “super-utility” capace di competere sul piano internazionale ed un Meridione sempre più preda di una politica e di un sistema delle imprese sempre più irresponsabile.
Queste alcune delle riflessioni per introdurre i nostri lavori di oggi: abbiamo pensato ad una sede seminariale, che consente ad ogni soggetto di potersi esprimere “in libertà”. Perché crediamo che oggi sia fondamentale che la discussione sul futuro del settore – e delle liberalizzazioni – esca dagli angusti spazi del dibattito politico-istituzionale, ma provi ad essere declinata anche dai soggetti più coinvolti dalla stessa: le imprese ed i lavoratori, che forse – credo – avrebbero da dire qualcosa al riguardo

Roma, 27 febbraio 2007  

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