MIBAC: “Cultura fra le macerie” dal giornale “la repubblica” – Inchieste 21 maggio 2012

23 Maggio 2012

 
 

Dal giornale "La repubblica"

 

 Vi invitiamo alla opportuna diffusione tra i lavoratori
 

CULTURA FRA LE MACERIE

Un patrimonio artistico e culturale sterminato, messo a rischio dalle sempre più scarse risorse pubbliche a disposizione. Intanto l’iniziativa riparte del basso, con l’occupazione di alcuni luoghi simbolici nelle più importanti città italiane. E anche il ministro Ornaghi mette in guardia: “Occorre intervenire al più presto”


IL CASO di VALERIA FRASCHETTI, CARMINE SAVIANO

La cultura è una bomba a orologeria tra incurie, tagli e pochi investimenti

 

I fondi stanziati per il ministero delle Attività culturali sono sempre di meno. Il dumping contrattuale è evidente più che in altri ambiti: il 30% di coloro che sono stati assunti con un contratto da vigilante svolge tutt'altro lavoro. E il turnover è minimo: per ogni cinque pensionati c'è solo un nuovo assunto. E l'ultima pianta organica è del 1997. Il sindacato: "Così al Micbac restano dieci anni di vita"

Crolli, tagli, riduzioni, sperperi, incuria, disinteresse, pericolo. Per entrare nella dimensione in cui vive, o meglio sopravvive, la cultura italiana, basta mettere in fila le parole, affidarsi al vocabolario. Quello dei commentatori, degli analisti, degli addetti ai lavori, di politici e cittadini. Malacultura. E non c’è solo Pompei, Carditello, il Colosseo, la necropoli etrusca di Cerveteri o Venezia permanentemente a rischio scomparsa. Lo sfascio è generale. Le risorse disponibili, quando va bene, bastano a malapena per far fronte all’ordinario, in questo caso, alla tutela. Valorizzazione, sviluppo, investimenti, sono solo figure retoriche, termini buoni solo per ricoprire con una patina di politically correct qualsivoglia discorso sui beni culturali. La realtà è diversa: una dismissione di Stato del patrimonio culturale. E anche il Mibac, il ministero dei Beni e delle Attività culturali, è sempre più un dicastero a scadenza.Dieci anni, al Mibac restano “solo dieci anni di vita”. L’analisi di Claudio Meloni, responsabile della Cgil per i Beni Culturali, mette in primo piano l’organizzazione del lavoro interna al ministero guidato da Lorenzo Ornaghi. “E’ vero, non abbiamo gli esuberi degli altri ministeri, e questo è di sicuro un punto a favore del governo Monti. Ma la situazione resta critica lo stesso: per ogni cinque dipendenti che vanno in pensione c’è solo un nuovo assunto, l’ultima pianta organica è del 1997, il dumping contrattuale è assurdo: basta pensare che il 30% di coloro che sono stati assunti con un contratto da vigilante, svolge tutt’altro lavoro”. Poi i tagli. E qui le cifre sono spietate: in dieci anni, dal 2001 al 2011, si è passato dallo 0,36 allo 0,18 dei fondi destinati in base al bilancio dello Stato. Ad oggi, si tratta di un miliardo e quattrocento milioni di euro, “niente, una cifra irrisoria”. Soprattutto in un Paese ad alta concentrazione di capolavori.E si tratta di una tendenza che non è legata alla gestione politica, “destra e sinistra, hanno tagliato in egual modo”. Inoltre, le cattive pratiche fanno il resto. Come l’abuso della contabilità speciale. Ovvero fondi destinati a singoli progetti erogati dal ministero e che, in molti casi, non vengono neanche spesi. “Abbiamo calcolato che ci sono quasi 500 milioni di euro inutilizzati”. E se si aggiunge il fatto che il ministero è oramai un “mostro burocratico”, un apparato centralistico che non riesce neanche a stabilire una comunicazione virtuosa con i territori, il danno è fatto. Immobilità, mancanza di decisioni tempestive, falle cui si è cercato di rimediare attraverso l’esternalizzazione di alcuni servizi, come quelli gestiti da Ares e Arcus, le due società In House del ministero. Il risultato? “Arcus, di cui si annuncia la chiusura, è diventata un carrozzone clientelare, mentre Ares non rispetta elementi basilari di civiltà del lavoro: quasi tutti i suoi dipendenti sono assunti con contratti di commercio, perché costano di meno”, conclude Meloni.Poi la precarietà. Per lo Stato, gran parte degli operatori dei beni culturali semplicemente non esiste. Dall’assenza di ordini professionali a bandi di concorso realizzati senza tener conto dei corsi di studio specifici dei vari archivisti, bibliotecari e operatori dei musei. “Ci sono casi in cui degli scavi vengono affidati solo a chi è iscritto ad un ordine professionale. Vale a dire: archeologi tagliati fuori dal proprio settore di competenza”, dice Tsao Cevoli, presidente dell’Associazione Archeologi Italiani. E poi la crisi, con decine di giovani lasciati semplicemente a casa, magari dopo anni di collaborazioni con un istituto culturale. In questo senso fa testo l’ultima lettera, 29 novembre 2011, inviata da Marco Carassi, presidente dell’associazione degli archivisti, Stefano Parise, bibliotecari, Alberto Garlandini dell’Icom: “La crisi sta mettendo a dura prova l’esistenza di molte istituzioni culturali, con gravi conseguenze sull’occupazione, sulle condizioni di lavoro, sul futuro di molti giovani specificamente preparati, ma senza alcuna possibilità di riconoscimento professionale”.Una giungla quindi, un groviglio di burocrazia, impreparazione, assenza di fondi. E dietro tutto ciò, quasi un retro-pensiero: la cultura non paga, ovvero l’estensione di massa del tremontiano “con la cultura non si mangia”. Niente di più falso. Gli studi di setteore sono decine. E gli esiti, sbalorditivi. Basta sfogliare le ultime pubblicazioni della European House Ambrosetti, centro studi di Milano. Per ogni cento euro di incremento di PiL nel settore culturale, “le ricadute sono pari a duecentoquarantanove euro”. Vale a dire, investi uno e guadagni 2,49. E sul fronte occupazionale, “per ogni incremento di un’unità di lavoro nel settore culturale italiano l’incremento totale sulle unità di lavoro è dell’1,65%”. Non male, soprattutto in un Paese sull’orlo della recessione.
 
21 maggio 2012

 
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