Carceri: tra virus e rivolte, il racconto dei protagonisti

21 Maggio 2020

Carceri: tra virus e rivolte, il racconto dei protagonisti

Tra Fase 1 e Fase 2, e il cambio di vertici del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, tra il rischio del contagio e la gestione delle rivolte, ecco il racconto dei protagonisti delle vicende che hanno coinvolto le carceri in questi mesi.

 

Un evento inaspettato, tragico, che ci ha investito all’improvviso tra fine febbraio e inizio marzo, ha stravolto le nostre abitudini consolidate e ha messo in evidenza tutte le fragilità del nostro sistema. Pensiamo al nostro servizio sanitario, pensiamo alle carceri. In queste ultime si sono vissute situazioni tra le più complicate e pericolose di tutta la vicenda. Tutti abbiamo tremato all’idea che un virus così virulento potesse infiltrarsi in un ambiente chiuso, ‘indifeso’ e che potesse fare danni di grossa portata.

Per limitare al minimo il rischio di contagio tra detenuti, visitatori e lavoratori, sono state messe in atto una serie di misure che hanno portato alla scarcerazione di quasi 10 mila detenuti a cui sono state applicate misure alternative alla detenzione (passando dai 61.230 detenuti di inizio marzo ai 52.679 attuali). Questo ha fatto sì che la situazione non precipitasse e che non dovessimo assistere ad una tragedia nella tragedia. In un’istituzione chiusa dove il rischio epidemiologico era altissimo si sono registrati un totale di 119 contagi tra i detenuti e 162 tra i lavoratori.

E come se non bastasse, alla preoccupazione in termini sanitari si è aggiunta una questione di sicurezza, a causa dell’esplosione delle rivolte di detenuti e alle conseguenti evasioni, che ha interessato circa 50 carceri in tutto il Paese (tra cui Foggia, Napoli, Milano, Salerno, Roma) e ha coinvolto 6 mila detenuti.

Tutto questo ha creato una miscela esplosiva che ha messo a dura prova il sistema e ha portato alle dimissioni del capo del Dap, Francesco Basentini, sostituito con Bernardo Petralia. Tra caos, paura e incertezza da parte di tutte quelle figure professionali che dentro al carcere svolgono la loro professione: polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori. Oggi sono proprio i protagonisti di questa storia a raccontarci la loro esperienza, tra i timori delle settimane passate e le incertezze di quelle che verranno, con l’avvio di una fase 2 non rassicurante.

 

Antonino, della Fp Cgil di Bologna, di professione poliziotto penitenziario nel carcere della città, era di turno quando è esplosa la rivolta.

“Da giorni si respirava un’aria tesa, arrivavano le notizie delle prime rivolte in alcuni carceri del Paese. L’indomani avremmo dovuto comunicare ai detenuti che i colloqui in presenza con amici e parenti erano interrotti. Si avvertiva una sensazione forte. Tornai a casa e dissi a mia moglie: ‘Mi sa che domani non torno a casa’.

Il giorno successivo, il 9 marzo, ero di servizio. E’ stato un crescendo di tensione. Il direttore ha incontrato i detenuti per informarli e si sono cominciati a sentire rumori e vocii di sottofondo che arrivavano dalle sezioni. Dopo poco sono esplosi i disordini e i detenuti hanno preso il controllo del carcere. Hanno cominciato ad aprire i cancelli, a forzarli. Erano circa 600 contro 150 agenti. Abbiamo dovuto abbandonare il reparto perché il rischio era veramente pesante. Sono sensazioni che non si dimenticano, di completa perdita di controllo, di essere assaliti.

Da quel momento sono stati due giorni incredibili: carabinieri, elicotteri che sorvolavano il carcere, incendi… Dopo due giorni abbiamo deciso di rientrare e di riprendere il controllo della situazione. Fortunatamente molti detenuti si sono arresi, erano stremati. Abbiamo trovato l’istituto completamente distrutto. Questi episodi rimarranno nella storia.

La cosa che più ci è dispiaciuta di tutta questa vicenda però è stata la sensazione di essere abbandonati: i dispositivi di sicurezza arrivati in ritardo, test e tamponi che hanno cominciato ad essere effettuati solo da pochi giorni, nonostante avessimo da subito registrato i primi contagi e anche qualche deceduto. In questo abbandono noi abbiamo continuato a lavorare, a tornare dalle nostre famiglie con il dubbio di essere potenziali veicoli del contagio. Non è stata affatto bella la sensazione, portata addosso per due mesi, di essere possibili portatori del virus”.

Stefano, della Fp Cgil Toscana, è un educatore che lavora con i detenuti del carcere di Livorno. Il loro lavoro non si è mai interrotto. Fino all’ultimo hanno continuato a garantire la loro presenza, mettendo a rischio la propria salute.

“Fin da subito ci è stato chiesto di essere presenti il più possibile, anche per ridurre il disagio dei detenuti a cui era stato impedito di vedere i parenti. Questo perché tra detenuti ed educatore si instaura un rapporto particolare: lì dentro siamo noi la loro famiglia. Solitamente ci circondano, ci abbracciano. Sto parlando di un educatore per 100 detenuti. Questo vuol dire anche però che svolgere il nostro lavoro in una condizione di emergenza sanitaria è ancora più pericoloso.

Nonostante questo, in un primo momento non ci è stato concesso neanche il diritto di tutelarci: ci hanno intimato, anche con una certa ostilità, di non indossare la mascherina per non creare allarme e spaventare i detenuti. Una gravissima sottovalutazione del problema da parte dell’amministrazione. A un certo punto, invece, hanno preso atto che non si poteva continuare a negare l’evidenza. Quando hanno capito che il fatto che i detenuti si potessero spaventare era il male minore, e che andava evitata una strage di contagi, allora sono arrivate le mascherine e ci è stato concesso di indossarle. Come se poi i detenuti non avessero la tv e non vedessero cosa accade al di fuori.

Il modo di affrontare l’emergenza da parte dell’amministrazione è stato assolutamente insufficiente. Sono andati nel pallone. Ci sono state poche direttive, in ritardo e confuse. Ci siamo ritrovati in balia delle cose. Ciò che rivendichiamo noi è semplice rispetto, per la persona prima ancora che per il lavoratore. I diritti non si barattano”.

 

Paola, della Fp Cgil Roma e Lazio, assistente sociale, racconta come è cambiato il lavoro con il virus.

“E’ stato un periodo molto pesante. Avevamo paura di andare in ufficio ma dovevamo continuare a lavorare. Basti pensare che solo al Uepe di Roma abbiamo in carico più di 4.400 persone. La verità è che non ci siamo fermati mai. In carcere la situazione era troppo a rischio, quindi abbiamo interrotto gli incontri con i detenuti ma siamo rimasti in contatto con le loro famiglie per svolgere le indagini sociofamiliari. E in ufficio abbiamo proseguito gli incontri con le persone che iniziavano una misura alternativa al carcere, ma con appuntamenti che impedissero che si creasse affollamento, mantenendo un contatto telefonico con gli altri utenti per rispondere alle loro numerose richieste di aiuto. Tutto questo però senza divisori e senza dispositivi di protezione (le mascherine sono arrivate a inizio aprile) ma soprattutto senza che nessuno ci dicesse cosa dovevamo fare. Ogni ufficio si è organizzato per sé.

Per avere qualche giorno di smartworking noi assistenti sociali, psicologi e operatori amministrativi, abbiamo dovuto combattere con un’amministrazione disorganizzata e resistente. E’ dovuto intervenire il sindacato. Mi rendo conto che il problema è prima di tutto culturale: siamo ancora restii a concedere una modalità di lavoro che non preveda la presenza. Come se da quello dipendesse l’efficienza. E così siamo entrati in smartworking in ritardo e senza che ci venissero forniti gli strumenti: né pc né collegamento a internet.

Con questa fase 2 dovremmo tornare, un passo per volta, alla normalità. Le direzioni stanno spingendo molto per questo. Ma ci vuole la massima attenzione per non mettere a repentaglio quanto fatto finora. Noi siamo disposti al confronto: rientrare sì ma in massima sicurezza. Il Covid ci ha cambiato la vita, ha cambiato le nostre abitudini. Ma abbiamo sentito molto forte la responsabilità di quello che ci veniva chiesto e non ci siamo mai tirati indietro”.

 

In tutta questa storia, anche i dirigenti degli istituti penitenziari, come il resto del personale, si sono ritrovati a dover fronteggiare un’emergenza imprevista, pericolosa e fuori dall’ordinario, con un’enorme responsabilità sulle spalle. E, nonostante le direttive confuse che arrivavano da parte dell’amministrazione, hanno adottato tutte le misure di prevenzione del contagio che venivano impartite, adattandole ai contesti e lavorando in sinergia con i presidi sanitari locali.

 

Parola alla Fp Cgil.

L’emergenza Covid-19 ha messo in evidenza le criticità del sistema penitenziario che la Fp Cgil denunciava da tempo: sovraffollamento dei detenuti, poco personale e strutture inadeguate. Criticità che hanno portato ai fatti di cronaca dei primi di marzo: rivolte, evasioni e purtroppo anche vittime. Queste le priorità che dovrà affrontare il nuovo capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia. “Se non ne prendiamo coscienza in questo momento, è evidente che difficilmente sarà possibile farlo in futuro”, spiega Massimiliano Prestini, Coordinatore nazionale della Fp Cgil.

“E’ questo il momento di fare quel passo: nuove assunzioni, incremento di risorse per la ristrutturazione degli istituti e il contrasto al sovraffollamento di detenuti, ricorrendo a misure alternative alla detenzione. Per fare questo è necessario rafforzare il sistema dell’esecuzione penale esterna”. Pensiamo alla detenzione domiciliare, alla liberazione anticipata o l’affidamento in prova ai servizi sociali. Tutte quelle misure che applicano davvero il principio secondo cui la pena per il reo non deve seguire esclusivamente una logica punitiva ma al contrario deve puntare al riscatto sociale del detenuto, ad un suo reinserimento nella società.

“La Fase 2 non deve disperdere i risultati ottenuti fino ad ora con fatica. Chiediamo di agire con prudenza e in massima sicurezza. Bisogna proseguire con lo smartwkorking e ripristinare le attività in presenza gradualmente, effettuare test e tamponi su tutto il personale e sanificare i luoghi di lavoro. Dobbiamo aver rispetto di quei lavoratori che nel disordine hanno garantito ordine, che non si sono tirati indietro e hanno proseguito a lavorare nonostante si fossero sentiti abbandonati in una situazione di estrema difficoltà”.

 

 

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