Da quando, nel 2024, è stato deciso di intervenire radicalmente sul sistema di misurazione e valutazione della performance (tanto da non consentire più la confrontabilità fra un anno e l’altro) una cosa non è mai cambiata, l’equivalenza “1 punto = 1 ora”, in base alla quale il coefficiente di omogeneizzazione è espressione del tempo di lavoro.
È dunque fuorviante sostenere il contrario, come è stato ripetuto anche di recente e da più parti (non solo dall’Amministrazione, sic!).
Facciamo un passo indietro. L’obiettivo standard del 124, che pure non abbiamo mai considerato intoccabile, si fondava su una stima chiara: 7 ore di lavoro per 22 giorni, con un’ipotesi di presenza effettiva – al netto di ferie, formazioni e simili – pari all’81%.
Con quel modello, basato su uno standard di produttività uguale per tutti, chi disponeva di maggiori risorse (cioè di più dipendenti) era chiamato a produrre più punti. Cambiava il contributo in termini di produzione totale, non la produttività richiesta a ciascuno.
Un esempio per capirci
Se una Direzione Regionale produce 500.000 punti all’anno, pari a 500.000 ore di lavoro, con 417 lavoratori, ogni lavoratore realizza in media 100 punti al mese, equivalenti a 100 ore di lavoro mensili.
La stessa produttività individuale si riscontra in una Direzione Regionale che produce 250.000 punti con la metà dei lavoratori: cambiano i volumi complessivi, ma non l’impegno medio per addetto.
Diverso è il caso di una Direzione Regionale che produce 400.000 punti all’anno con gli stessi 417 lavoratori: in questo caso la produttività media scende a 80 punti al mese per lavoratore, cioè 80 ore di lavoro mensili.
Ne consegue che fissare obiettivi di produzione diversi tra regioni significa imporre carichi di lavoro in ore differenti ai singoli lavoratori a seconda del territorio, a parità di mansioni e di orario contrattuale.
Il risultato finale
Il superamento del 124 attraverso la regionalizzazione degli obiettivi ha aperto quello che possiamo definire un vero e proprio vaso di Pandora.
Il sistema ibrido che ne è venuto fuori ha fatto saltare gli equilibri, introducendo meccanismi che rompono il principio di uguaglianza sostanziale tra lavoratrici e lavoratori.
Paventando questo rischio, il primo dicembre 2023 scrivevamo: “Un conto, a nostro avviso, è studiare degli elementi di manutenzione del sistema; altro, invece, è rendere meno chiare le regole della parametrazione iniziale. Su questo continuiamo a chiedere un approfondimento chiarificatore, al netto delle rassicurazioni sulla negoziazione che l’Amministrazione ha fornito in merito a un preventivo confronto, di anno in anno, con le diverse Direzioni Regionali. Non vorremmo che l’adozione di un modello di miglioramento tarato sede per sede, anno per anno, porti a determinare a regime disparità nei meccanismi di produzione. L’obiettivo del sistema deve riflettere coerenza, non far sì che una sede andata bene debba magari avere un obiettivo ancora più “sfidante” per l’anno successivo, differenziando così la quantità di lavoro sui singoli territori”.
È andata esattamente come avevamo previsto e vediamo adesso che qualche organizzazione finalmente inizia a prendere coscienza della serietà delle nostre denunce.
La nostra posizione
In questo scenario, il rischio è evidente: chi oggi lavora bene sarà chiamato a lavorare molto meglio, mentre chi lavora male dovrà fare solo un po’ meno male.
Questo non è un modello equo, né sostenibile. È necessario riaprire una riflessione seria e trasparente sui criteri di misurazione della performance, riaffermando il principio che a parità di lavoro devono corrispondere obiettivi e valutazioni comparabili, indipendentemente dal territorio di appartenenza. Solo così si tutela il lavoro, si valorizza la professionalità e si difende realmente il valore pubblico dell’azione amministrativa.
Giuseppe Lombardo