Fuori a metà, tutti hanno diritto di riscatto. Tre storie di fatica e impegno

29 Gennaio 2020

Teresa, Sonia e Giuseppe si occupano di dare a chi commette un reato una possibilità di riscatto. Sono le lavoratrici e i lavoratori dell’esecuzione penale esterna: assistenti sociali e poliziotti penitenziari. 1.300 con 94 mila soggetti a carico. Una situazione ai margini del possibile che hanno voluto raccontarci.

 

L’esecuzione penale esterna è quel segmento che offre, per i reati minori, un’alternativa al carcere e che mira, attraverso il controllo e l’assistenza, alla rieducazione al reinserimento del reo nella società. Una misura in aumento, passando da 32 mila persone nel 2015 a oltre 55 mila nel 2019, a fronte di appena 1.299 lavoratori del settore. Un bilancio destinato a peggiorare a causa dei prossimi pensionamenti dovuti all’età media elevata nei servizi sociali e a Quota 100. Una situazione grave cui si prova a sopperire ricorrendo al volontariato. Teresa, Sonia e Giuseppe sono tre lavoratori che si occupano di esecuzione penale esterna e che hanno voluto raccontarci la loro professione.

 

“Mi ha fatto riflettere accorgermi che i figli erano diventati come i padri”
Teresa, assistente sociale del Centro di Giustizia Minorile di Napoli

“Ho lavorato per più di 30 anni presso l’Uepe di Napoli e da circa tre settimane sono al Centro di Giustizia Minorile. Questo cambiamento è stato per me motivo di grande riflessione, per una ragione: aprendo i fascicoli dei minori mi sono accorta che quei minori fossero i figli di giovani donne e uomini che avevo seguito 25 anni prima. I padri una volta erano i figli, e i figli erano diventati come i padri.

Questo rende chiara una consapevolezza: non si può pensare di intervenire in modo frammentato sul degrado sociale e familiare di alcune realtà. Per rovesciare davvero il destino scritto di queste famiglie ci vorrebbe un intervento a 360 gradi di tutte le istituzioni, di tutta la società civile.
Se quei ragazzi che avevo conosciuto 25 anni fa fossero stati presi in carico da tutta la società civile, forse oggi quei figli non avrebbero seguito le stesse orme dei genitori.
Un detenuto costa circa 200 euro al giorno, un minore in comunità tra i 92 e i 108 euro. Con queste cifre, quante cose si potrebbero fare nella prevenzione? Quanto benessere si potrebbe garantire?

Io credo che il nostro sia un lavoro bellissimo nel quale bisogna dare senza riserva. Ma i numeri dell’Esecuzione Penale Esterna sono tali che ciò è reso impossibile. Non solo come personale, ma anche come carichi e condizioni di lavoro: uffici fatiscenti, strumenti obsoleti, servizi igienici malfunzionanti. Non si può approfittare dell’attaccamento al proprio compito istituzionale; occorre dare dignità al lavoro di tutti”.

Teresa - Fuori a metà

“Convincere le persone a venire da noi e a raccontare la propria storia personale, è complicato. Ci vivono come persone che si intrufolano in maniera prepotente nella loro vita”
Sonia, assistente sociale dell’Uepe di Roma

“Il nostro è un mestiere difficile, usurante. Un mestiere in cui ogni giorno assisti alla visione di vite sprecate, di storie terribili. E devi comunque saper conservare quella visione ottimistica e di fiducia nella capacità degli uomini di fare scelte di senso, di riprendere in mano la propria vita e di cambiarla. Una missione, molto più che un mestiere. Per fare questo lavoro devi crederci davvero, devi credere davvero che la pena non sia pura afflizione ma un’occasione per riqualificarsi.

I fascicoli delle persone che seguiamo sono messi in ordine di priorità. Ma nel nostro lavoro la persona umana conta più delle carte. Se ho un ragazzo in carcere che fa sciopero della fame perché non può seguire la scuola io devo poter intervenire, al di là dell’ordine dei miei fascicoli. Con gli adulti poi è ancora più difficile. Convincerli a venire da noi, a raccontare la propria storia personale, è molto complicato. Va fatto in maniera delicata. Ci vivono come persone che si intrufolano in maniera prepotente nella loro vita.

Ma ci troviamo ogni giorno costretti a combattere con condizioni di lavoro difficili. Siamo pochi e con carichi di lavoro pesanti: il numero di utenti aumenta e anche le misure di cui ci dobbiamo occupare. Se vogliamo davvero perseguire gli obiettivi tipici del nostro lavoro, ci va restituita una dignità professionale”.

Sonia - Fuori a metà

 

“Assistenti sociali e poliziotti penitenziari, la nostra è una sinergica azione con un unico grande obiettivo comune: il reinserimento della persona”
Giuseppe, Poliziotto Penitenziario, Centro di Giustizia Minorile dell’Aquila

Giuseppe - Fuori a metà“La creazione di un unico Dipartimento ha aperto la strada alla costruzione di un percorso di inclusione sociale per adulti e minorenni, coinvolgendo diverse figure professionali: esperti in materie psicologiche e sociali, nonché la Polizia Penitenziaria. Una sinergica integrazione di tutti gli interventi, senza dover snaturare le competenze di ognuno di noi, fino al raggiungimento di un unico grande obiettivo comune: il reinserimento e il controllo sociale dell’affidato.

Il poliziotto penitenziaria non dovrà più essere visto come mero custode della struttura che garantisce sicurezza interna, ma come un vero e proprio protagonista del sistema, che partecipa attivamente a tutte le fasi che accompagnano l’affidato nella sua misura.

Sento doveroso lanciare un appello affinché tanto il Governo quanto la nostra Amministrazione diano la giusta forza di investimento per garantire questo rinnovamento, con una linfa nuova, che dia spessore al lavoro in questo settore”.

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